Un piccolo viaggio in casa, una specie di giornata di formazione: Daniele Bergesio, autore del libro “L’ascensore” (leggi recensione), ha scritto una storia semplice, leggera, ma con una “sotto traccia” piena di simboli e significati. Un’idea nata dalla collaborazione con gli editori di VerbaVolant Edizioni e l’illustratrice Olha Muzychenko, ha preso forma in un libro dal formato inusuale che vuole replicare il percorso in salita dell’ascensore. Nell’intervista l’autore racconta l’origine di quell’idea, ma non solo. Concede una nota più intima, sul senso della scrittura, su cosa la scrittura aiuta a tirar fuori.
Com’è nata l’idea del libro “L’ascensore”? Com’è nata, invece, la collaborazione con VerbaVolant Edizioni?
«Ho bussato alla porta di VerbaVolant ‘accompagnato’, sono sempre stato un grande fan dei Libri da Parati e conoscendo da anni un amico che collabora con Fausta e Elio ho pensato di proporne uno… senza però fare i conti con quei due vulcani di idee! Fausta infatti aveva in mente un tema (l’ascensore, appunto) e una voglia matta di ‘costruire’ qualcosa di inusuale: mi ha lanciato l’idea e mi sono tuffato a scrivere. Sono partito con una traccia, che poi è diventata tutt’altro, e poi tutt’altro ancora… fino a immaginare Iris e il suo viaggio all’insù. Da lì, costruita la storia, siamo passati a ragionare sul formato per renderla efficace… ed ecco qui questo libro, che stupisce per primo me stesso – motivo per andarne personalmente fiero. Spero che piaccia quanto piace a me – e io sono sempre molto critico su quel che faccio!»
Hai definito questo progetto “semplice e complesso insieme”…
«La cosa più ovvia da dire è che beh, è complesso per il formato: certo, è così. Però ho pensato che un’idea cartotecnica così speciale meritava una complessità ulteriore per valorizzarla. Così ho immaginato che Iris ad ogni piano scoprisse un pezzetto diverso e con un significato ulteriore: dallo zio la voglia di raccontarsi, in bagno quella di prendersi del tempo per sé, dal nonno il restituirsi nelle storie, dalla nonna le coccole… tutto quello che fa di noi persone, insomma. Però sono cose che restano sotto traccia, volevo che la storia rimanesse semplice appunto, leggera: un piccolo viaggio in casa, cadenzato nel ritmo, facile da leggere e senza troppi proclami».
Scrivere libri per bambini è un grande compito. Che responsabilità senti di avere nei confronti dei tuoi piccoli lettori?
«Io penso che scrivere in generale porti responsabilità, i bambini sono gli adulti di domani ma in realtà siamo noi adulti ad essere solo dei bambini con più esperienza. E questa esperienza è fatta di mondo, in tutte le sue forme: nasconderne qualcuna, edulcorarne altre, sono cose che vanno bene fino a un certo punto. Se ci pensi, Andersen, Perrault o i Grimm non concedevano molto alla simpatia, e Pinocchio finisce impiccato, con i piedi bruciati, quasi fritto, trasformato in asino e fino nella pancia del pesce… ce n’è per tutti! Dopodiché, quella di Iris non è certo una storia ‘scorretta’, anzi: è una specie di giornata di formazione fino ad una conquista speciale. Ma quello che voglio dire è che se una responsabilità per chi scrive esiste, è quella di raccontare una bella storia e di non prendere in giro il lettore. Solo questo.
Aggiungo un’ultima cosa, di cui forse si parla poco, ma credo sia qualcosa che scrivere libri per i più piccoli porti con sé – e che si ricollega al discorso precedente. Quando scrivo, sento grandi responsabilità verso di me. Guardo alle cose che ho sbagliato, a quelle che avrei fatto diversamente, a quelle di cui vado fiero e quelle che a ripensarci mi fanno restare male. Scrivere è un modo di vederle, di restituirle, in un certo senso di guarirne. È una cosa che va trasmessa al lettore, in qualche modo, è importante per me e per lui o lei. Quando si dice ‘metterci il cuore’ intendo una cosa del genere».
Qual è l’insegnamento, la morale, il senso del libro “L’ascensore”? Cosa volete trasmettere a chi vi legge?
«Oh, niente morale! Sono della scuola di De Andrè, che detestava Storia di un Impiegato perché ‘è l’unico disco in cui ho detto a chi mi ascolta cosa deve fare’. Vale il discorso precedente: ecco quello che sono, ecco quello che avrei voluto essere e fare, pensaci sopra e vedi se può esserti di aiuto.
Nel caso dell’Ascensore, il senso potrebbe essere: usa tutto. Ogni cosa che ti accadrà, ogni evento, ogni minuzia può avere un posto nella tua vita, può servirti. E tu servitene. Fai tesoro di tutto. È una cosa che ho imparato tardi, quindi eccola qui, nero su bianco – anzi, migliaia di colori!»
Come si è svolto il lavoro tra te e l’illustratrice? Le illustrazioni sono nate in base al tuo testo o è stato un lavoro di reciproco scambio?
«Oh, Olha è geniale. Si è trovata il testo fatto, ci siamo sentiti un paio di volte per tradurre alcuni passaggi – il mio ucraino è piuttosto scarso, ehm, lei invece con l’inglese e l’italiano ha capito perfettamente ogni immagine dandole un senso personalissimo. Ha aggiunto piccoli dettagli strepitosi, ha assecondato un paio di richieste a cui tenevo molto, e ha creato un libro che è proprio suo quanto mio: autrice allo stesso modo, davvero. Non solo un’illustratrice abilissima e di grande personalità, ma anche scenografa e sceneggiatrice quasi. Sono orgoglioso di questo libro anche per merito suo, siamo stati una gran bella squadra!»