In uscita il 31 gennaio, “Una forma e due specchi” di Kiran Sankharan è un romanzo in cui l’esperienza dell’autore diventa spunto per una storia che si articola su una totale finzione: un uomo che scopre se stesso tramite l’incontro con un altro uomo, che sconvolge la sua esistenza in equilibrio instabile per arrendersi ad una profonda rinascita.
È una verità che si fa pressante, che urge e riesce a scavalcare i condizionamenti, i pregiudizi, ed «è quel che è», semplicemente. La storia di Andrea, protagonista del romanzo di Kiran Sankharan, è un viaggio nella consapevolezza, nella rivelazione di ciò che è sempre stato ma che non ha mai avuto il coraggio di riconoscere, a causa di ottuse strategie della mente, di categorie mentali, le sole accettate socialmente.
“Una forma e due specchi”, edito da Edizioni Leima, focalizza l’attenzione su una verità incontrovertibile: l’amore è, deve essere, indipendentemente dal resto, dalla vita precedente, dalle scelte fatte. Così Andrea, sposato e con due figli, inizia a vivere la sua omosessualità grazie ad un incontro inaspettato.
Attraverso gli occhi di un altro, diverso da se stesso e allo stesso tempo così complementare, il protagonista affronta il cambiamento, la rottura e la separazione da quelle che pensava fossero le sue convinzioni dettate da una vita sotto controllo. «Questi io li chiamo condizionamenti, perché finiscono per influenzare ogni nostra percezione che non è più libera, pura, aperta come da bambini, ma subisce la continua interferenza della mente che al fianco di ogni manifestazione mette l’etichetta: bella, brutta, buona cattiva, giusta sbagliata…».
Kuno, l’uomo che irrompe nella vita di Andrea, diventa il suo specchio, che non vuol dire essere una copia dell’altro. Kuno diventa lo specchio delle sue fragilità emotive, il loro amore diventa terreno fertile per la sua rivelazione più profonda. Nello stato emozionale e mentale definito stato nascente da Francesco Alberoni (che nel suo “L’amore e gli amori”, Edizioni Leima, restituisce una mappa dei vari tipi di amore), l’innamorato grazie all’incontro con l’altro abbandona la sua condizione di prigionia per andare alla ricerca della propria autenticità, «questo viene ottenuto grazie all’altra persona, al dialogo con lei, all’incontro in cui ciascuno cerca nell’altro il riconoscimento, l’accettazione, la comprensione, l’approvazione e la redenzione di ciò che è stato ed è realmente».
Così il libro racconta di un amore, catartico, stravolgente, una passione che avrà un epilogo doloroso. Ma grazie a tutto questo Andrea riprende il possesso della sua vita, rinuncia a tutte le impalcature, a tutte le strutture in cui si era rifugiato (le abitudini, l’ossessione per l’ordine, la finta perfezione…), si abbandona al caos, alla creatività della vita. Il gioco di specchi, però, è reciproco, puntualizza l’autore: «uno, Andrea, ha speso la vita a fortificare la sua identità umana perdendo di vista la sua essenza spirituale. L’altro, Kuno, ha fatto il percorso inverso. Incontrandosi si compensano e rinascono completandosi a vicenda. Purtroppo per Kuno questa consapevolezza arriva troppo tardi, mentre ad Andrea resta l’eredità di una vita in cui ciò che era si completa con una consapevolezza nuova».
La forza del caso, della casualità della vita, attraversa tutto il romanzo di Kiran – pseudonimo di Antonello Iona – che nella sua scrittura abbandona orpelli e citazioni, per lasciare al lettore la vera storia, per lasciare spazio alla sua interpretazione. «Nella scrittura come nell’arte – spiega Kiran Sankharan – l’autore deve essere assente secondo me, sparire, essere canale diretto e aperto tre le emozioni e i loro fruitori. La creazione nasce quando il creatore muore. In questo romanzo, credo di essere sparito come scrittore: è stata la mia scommessa. La storia è sì tratta da una esperienza reale, ma si articola su una totale finzione».
“Una forma e due specchi” è il tuo primo romanzo. Com’è nata concretamente l’idea di scrivere un libro?
«Il libro è nato da un incontro casuale con Alessandro Savona che mi ha chiesto “Hai qualcosa che possiamo pubblicare?”. Erano le vacanze di Natale del 2017, era un periodo in cui stavo elaborando il lutto di Amrit, il mio ex, e viaggiavo per lavoro più del solito, quindi passavo ore negli aeroporti, aerei, alberghi. Ho iniziato a scrivere a Berlino riprendendo le principali emozioni che volevo condividere e il racconto ha proceduto spontaneo. Ho fatto il conto di aver scritto il libro in 12 Paesi e tre continenti. Per essere un libro di 150 pagine è tanto! Scrivevo un capitolo alla volta e avevo deciso di scrivere tanti capitoli quanti erano i paragrafi di uno scritto di Amrit, un monologo che non mi è stato possibile inserire come avrei voluto per il veto della sua famiglia di origine. Quindi a fine romanzo ho riscritto io il “Monologo dei colori” riesumando le emozioni del sopruso, del potere e cercando di armonizzarlo con la storia».
Il libro è attraversato dalla convinzione che sia solo il caso a guidare le cose. Si può dire ci sia un certo fatalismo?
«Non mi definisco fatalista nel senso letterale del termine, preferirei definirmi consapevole. Sono consapevole del fatto che l’idea di controllare la nostra vita sia nei fatti solo un’idea. Osservo consapevolmente che le cose importanti non le decidiamo e seppure abbiamo l’illusione di decidere, le opzioni stesse che valutiamo ci vengono presentate dalla combinazione del caso. Se “vediamo” due strade è perché siamo messi davanti a questa opzione dalla combinazione del caos che ce le fa vedere, magari altri ne vedono altre.
Nello stato nascente, abbiamo l’impressione che sia finito un periodo di prigionia. Ci eravamo piegati, per pigrizia, per passività, per paura. (…) Adesso sappiamo quali sono i nostri veri desideri, conosciamo la nostra vera essenza. Leggendo questo passo di Alberoni ho pensato all’amore tra Andrea e Kuno, a quell’essersi improvvisamente “riconosciuti”. Cosa ne pensi?
«Alberoni? Ovviamente mi piace, farei solo una precisazione: ci si innamora quando si è già in fase di espansione. Non è l’amore che genera espansione, ma piuttosto il contrario. Se siamo contratti non incontriamo noi stessi, meno che mai con la nostra immagine specchiata negli altri. Se siamo contratti non ci rendiamo conto di essere lo stesso corpo che si finge due per non sottrarsi al gioco dell’amore. Ma essere contratti non è un male, è solo uno stato che magari ci prepara ad altro. Andrea è lo specchio di Kuno, Kuno lo specchio di Andrea. E tu, cara mia, sei il mio adesso ed io il tuo. Sto parlando con me, attraverso l’idea di te, ma tu non esisti separata da me che piaccia o no alla tua mente».