Dopo “I giorni della vampa”, Giocchino Lonobile pubblica un nuovo libro con Il Palindromo: si addentra tra le pieghe delle strade di Palermo e scova storie, leggende, racconti e li raccoglie in “Via Terra delle Mosche“. Approfondisce curiosità e rivela misteri che si celano dietro nomi di vie bizzarri ed evocativi, rivolgendosi – da scrittore e cantastorie – a chi quelle strade voglia non soltanto percorrerle, ma “viverle” da un altro punto di vista, quello della Storia. “Spesso le storie raccontano altre storie, e non è possibile raccontare le prime senza raccontare tutte le altre”, si legge nella quarta di copertina. In anteprima, un brano estratto da “Via Terra delle Mosche”, in uscita il 18 aprile in libreria. Prima presentazione in programma da Modusvivendi Libreria giovedì 28 marzo.
Saggezza popolare
(via Coltellieri, già strada di Garrillo alla Bocceria)
«Ciràulu! Ciràulu!» gridava un bambino che correva a perdifiato tra vicoli e cortili per annunciarne l’arrivo. Chi udiva il richiamo, giovane o adulto che fosse, lasciava, se poteva, la propria occupazione e si avviava in piazza per godersi lo spettacolo. I Ciràuli avevano percorso ogni strada e visitato tutti i paesi, avevano come bagagli solo le loro gabbie di serpi. «Ciràulu! Ciràulu!» continuava a gridare il bambino, mentre gli abitanti del quartiere prendevano posto a piazza San Domenico. Arrivavano dalla Cala, da piazza Tarzanà e dalla Fonderia, ma anche dalla via Bandiera e dalla via San Basilio, alcuni avevano cassette di legno per potersi sedere, i più piccoli si arrampicavano sulla colonna in cima alla quale stava la statua dell’Addolorata. Il Ciràulo era seduto a gambe incrociate al centro del cerchio umano che si era formato. Aveva davanti a sé le quattro gabbie allineate.
Era magro, con la pelle bruciata dal sole e la barba lunga, vestito di stracci, sembrava essere un pellegrino o meglio uno di quei santoni che la leggenda narrava mangiassero vetri, dormissero sui chiodi e avessero come casa le strade polverose di un paese lontano, dove le vacche erano considerate sacre. Quando si mise dritto in piedi e alzò le braccia al cielo, la folla si zittì. Aprì la prima gabbia e ne tirò fuori una grande serpe, lunga più di un metro. La teneva in aria stringendola tra la testa e il resto del viscido corpo. A vedere l’animale, un “Oh!” misto di stupore e paura passò di bocca in bocca. Con gesti sapienti lo avvolse attorno al braccio sinistro; prese un’altra serpe che pareva essere gemella alla prima e l’attorcigliò sul braccio libero. Alzò arti e rettili in alto e il batter di mani dei presenti scoppiò fulmineo. Si avvicinò alla terza gabbia e ne estrasse un rettile poco più piccolo dei precedenti e con fare ancora più solenne se lo girò al collo a mo’ di sciarpa. Le donne fecero dei gridolini di spavento, i ragazzi allargarono ancor più gli occhi, gli uomini si guardarono abbassando gli angoli della bocca in segno di approvazione. La tensione era giunta al suo punto più alto, giusto in tempo per il gran finale. Il Ciràulo sbottonò la camicia lisa che indossava, mostrando il torace scheletrico e aprì l’ultima gabbia. Prese tra le dita, come un flauto, una serpe lunga poco più di un palmo, nera come la morte. Si guardò intorno e trasformò l’animale da flauto a pugnale e se lo pianto in petto. Tra il pubblico ci fu chi si coprì con le mani il volto, chi gridò e un paio svennero.
Il serpentello, come lo scorpione che doveva attraversare il fiume sul dorso del rospo nella famosa fiaba, non poté far a meno di seguire la propria natura e conficcò i denti. Per un attimo, a tutti parve di vedere il Genio di Palermo, non più statua come d’abitudine, ma incantatore di serpenti. Il Ciràulo chiuse gli occhi e strinse i denti, così forte che quelli delle prime file sentirono uno stridere. Quando li riaprì fece un profondo respiro, poi lentamente ripose il serpente più piccolo nella gabbia, e lo stesso fece con gli altri, dopo averli srotolati. Gli uomini, le donne e i bambini che fino ad allora aveva trattenuto nei polmoni l’aria e tenuto gli occhi sbarrati, liberarono la tensione con uno scrosciante applauso. Il Ciràulo fece un teatrale inchino e cadde con la faccia a terra, privo di sensi. Dapprima non si riuscì a intendere se lo spettacolo proseguisse in quel modo o se si fosse passati dalla recita alla vita, o alla morte in quel caso. L’uomo continuava a restare immobile, presto il panico dilagò e ci fu un fuggi fuggi che disperse la maggior parte delle persone. I più coraggiosi si avvicinarono al corpo, girandolo videro il viso cianotico, il respiro tanto esile da sembrare assente. «Da Garrillo! Da Garrillo! Portatelo da Garrillo», disse un vecchio che si trovava lì. Due giovani lo presero sotto le spalle e facendo forza per alzarlo, quasi lo lanciarono in aria: era ancora più leggero di quanto l’esile aspetto mostrasse. La bottega era a meno di un tiro di schioppo; Garrillo era dietro il banco. «È finito lo spettacolo?», chiese vedendoli entrare.
“Via Terra delle Mosche”
di Gioacchino Lonobile
Una guida insolita, densa di racconti, leggende, storie custodite per decenni, se non addirittura secoli, tra le pieghe delle strade di Palermo. Sono tante, infatti, le vie che portano nomi straordinariamente evocativi, bizzarri e misteriosi; questo libro si rivolge a coloro i quali oltre a percorrerle, intendano scoprirle davvero, approfondendo le curiosità e le fantasticherie che le avvolgono. Gioacchino Lonobile realizza uno stradario immaginifico tra storia e leggenda utilizzando una scrittura e una lingua che rievocano le antiche guide di viaggio, con l’incederedei cantastorie: il suo “Cunto” restituisce l’atmosfera senza tempo di certi luoghi che conservano immutato il proprio fascino.