“Parole in croce“, pubblicato da Margana Edizioni, è un interessante esperimento letterario di Salvatore Mugno, saggista e narratore, che si confronta, si scontra e cerca di riappacificarsi con gli strumenti della scrittura.
Immaginate uno scrittore che si trovi a tu per tu con la penna, il foglio, la mano, con le parole: immaginate questo scrittore. Adesso immaginate uno scrittore dal punto di vista di quella penna, quel foglio, quella mano, di quelle parole.
In poco più di ottanta pagine, lungo lo scorrere di otto racconti, l’autore sviscera capitolo per capitolo, quello che potrebbe essere – nella mente laboriosa di uno scrittore in preda ad un’assennata autocritica – la prospettiva della pagina che accoglie, a volte a malincuore, lo sfogo di un uomo; della penna vittima delle angherie nervose di uno scrittore preso dall’ansia da prestazione; della mano destra che rivendica il potere su quel corpo che s’illude di dominarla, manovrarla, sminuirla, quel corpo che non le riconosce la giusta importanza rispetto quel lavoro così duro e sporco qual è la scrittura.
E cosa sarebbe lo scrittore senza la sua stanza, il suo rifugio, la sua piccola comunità fatta di libri e volumi accumulati negli anni? Cosa sarebbe senza i suoi dubbi, le sue fragilità, quel suo tipico interrogarsi su quale lettore avrebbe dovuto essere?
«La biblioteca è la mia zavorra e la mia àncora, un freno e un’assicurazione, il mio tesoro e la mia rovina, la mia compagnia e la mia solitudine… Mai una cosa lineare, incontroversa, in quest’esistenza!»
“Parole in croce”, in fondo, è come una lunga lettera d’amore – un amore fortemente erotico e appassionante – in cui lo scrittore esamina le sue smanie, le sue inquietudini violente che riversa sugli oggetti, su ciò che lo accompagna dalla prima parola scritta fino al libro: una sorta di animismo. Come la penna, cara compagna di avventure, di cui lo scrittore diventa boia e assassino.
Inquieto, insaziabile, terrorizzato dalla possibile distruzione del suo più grande tesoro, la sua libreria, lo scrittore è dipinto come un uomo straziato e straziante. Salvatore Mugno ritrae una figura sofferente, spesso preseguitato dalla cosiddetta crisi d’ispirazione, alla fagocitante ricerca di un ordine che non si realizzerà mai, perché lo scrittore è così: in bilico tra la fierezza e l’autodistruzione.
Forse per questo, in uno dei capitoli più significativi, “Parole in croce”, che tra l’altro presta il nome al titolo del libro, lo scrittore si mostra fiero delle sue prodezze letterarie, volendo però porre un confine, un limite netto tra l’amore per la scrittura e la scrittura come lavoro, come “capacità” da dover mettere in bella mostra. La scrittura non dovrebbe essere un mezzo di esibizione, di esaltazione. Non c’è nulla da ricercare nella letteratura o nello scrittore, o nella sua abilità di tendere trappole ai lettori, di affascinarli con i suoi artifici.
«Che squallore, che supplizio, che onta le critiche, le glosse, le recensioni, gli inquadramenti disciplinari, estetici, artistici… Volete capirlo che non è per voi che scriviamo: non per i lettori, non per i critici, non per le biblioteche, non per le scuole, non per i saggi, neppure per gli scrittori (che obbrobrio scrivere per gli scrittori!) e neanche per noi stessi, no! Noi gridiamo nella baraonda, nei mercati, nelle fiere, negli stadi, nei concerti metallari delle nostre cervella e ci rivolgiamo all’invisibile, al silenzioso, all’incommensurabile, all’insopportabile…»
Nel suo ritrarsi, divincolarsi da queste strategie, lo scrittore inveisce contro chi pensa di avere il diritto di criticare la sua tecnica, di chi pensa sia giusto ergerla a messaggio universale, quando invece è qualcosa di intimamente privato, singolo, unico a se stesso, rivolto a quell’invisibile che non può essere oggetto di descrizioni, né critiche. Ad ognuno spetta il suo ruolo: chi scrittore, chi lettore, poi ognuno per la sua strada.