Un incontro dedicato al libro di Nino Fasullo, “Il pastore di Brancaccio”, con Gregorio Porcaro e Gianfranco Perriera: Don Puglisi ci insegna che opporsi è possibile, è necessario, attraverso le piccole scelte quotidiane.
La delicatezza di un gesto quotidiano: così un piccolo uomo, un piccolo prete, ha detto “no” alla mafia. È questo l’insegnamento di Don Puglisi che ha dimostrato in vita come fosse possibile opporsi ad una grande organizzazione criminale attraverso piccoli e defilati gesti. Attraverso l’insegnamento, la passione, la dedizione, tramite un sincero senso di responsabilità civile che lo ha portato a rimanere nel quartiere di Brancaccio, a non fuggire nonostante fosse in pericolo.
Cosa ha rappresentato la vita di Don Puglisi? Nel suo libro, “Il pastore di Brancaccio” pubblicato da il Palindromo, Nino Fasullo ripercorre in chiave interpretativa e simbolica la sua vita per recuperarne il senso più profondo, il suo insegnamento. Ne hanno discusso alla presentazione di venerdì 23 novembre, insieme all’autore, il referente regionale dell’associazione Libera, Gregorio Porcaro, e Gianfranco Perriera (autore per la casa editrice con “L’amore custodito“).
Ad aprire l’incontro, Gregorio Porcaro, che ha sottolineato l’importanza di parlare di Padre Puglisi in un luogo come Libera Palermo, bottega dei saperi, un bene confiscato alla mafia che apparteneva alla famiglia Ienna, una delle famiglie prestanome dei fratelli Graviano, quelli che hanno organizzato l’omicidio.
Raccontando aneddoti della sua vita e dei suoi incontri con il parroco, ha ricordato come Don Puglisi abbia insegnato che in nessun caso possiamo considerarci vittime. Siamo tutti colpevoli o tutti carnefici. È riuscito a vedere oltre, a vedere con gli occhi dei bambini di Brancaccio a cui insegnava, si è immedesimato diventando ultimo degli ultimi. Il libro di Nino Fasullo ci invita a riflettere su questo e a fare questo esame di coscienza.
Hannah Arendt diceva che la vera cultura consiste nel portare l’umano dov’è il non umano, così come ha fatto Don Puglisi: ha portato l’umanità in un luogo ammorbato da un male profondo. Lo ha ricordato Gianfranco Perriera nel tentativo di tracciare i confini di un libro deliziosamente asciutto e deliziosamente profondo come “Il pastore di Brancaccio”.
«Nino Fasullo – ha detto Perriera – decide di non fare una geografia, non sceglie un passo narrativo, ma un passo interpretativo: cosa ha rappresentato questa vita? Qual è il senso profondo di questo cammino fra gli ultimi, gli abituati alla violenza? La domanda che accompagna questo testo è: perché prendersela con quest’uomo, con questa umile, delicata, intensa figura?»
Il punto del libro sta in una conversione del senso. Ciò che ci ha insegnato la vita (e così anche la morte) di Puglisi è che non ha valore accusare i mafiosi. Il punto è accusare se stessi e quindi partire dai piccoli gesti: basta non collaborare, non accettare le regole della violenza. Tutto questo è possibile anche grazie ad una comunità che dialoga.
Ed è questo anche l’invito di Nino Fasullo: il dialogo, l’interrogarsi sul senso di responsabilità del singolo nei confronti della mafia. E in questo interrogarsi coinvolge anche la Chiesa che non è esente da colpe. «La storia della mafia, la storia di questa città, è solo una parte. È una storia umiliante, seria, di cui bisogna parlare. Dove se ne può parlare? In tutti i posti dove ci possiamo incontrare. Non si può tacere. Se guardi bene in faccia la realtà demoniaca, allora forse l’approccio cambia: la de-demonizzo e vedi dov’è, che forza ha, che volto ha, e la puoi affrontare».
Padre Puglisi, ha detto l’autore, è stato un piccolo uomo che ha speso se stesso, che ha affrontato la mafia solo con la sua forza interiore. Nino Fasullo ricorda con il suo libro, frutto di un lungo lavoro al fianco degli editori de il Palindromo, di tenere a mente la sua vita e la sua morte per trarne una nuova strategia di contrasto alla violenza: convertire se stessi, prendere coscienza e ricordare il nostro grande senso di responsabilità.